
Michele E. Grandolfo
Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute
Istituto Superiore di Sanità
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Si può parlare di strategie di promozione della salute quando vengono definiti obiettivi misurabili attraverso opportuni indicatori di esito “outcome” (per es. riduzione di incidenza di una malattia prevenibile mediante vaccinazione, riduzione di incidenza del tumore del collo dell’utero, aumento della prevalenza di bambini allattati esclusivamente al seno al 6° mese di vita, ecc.), attraverso i quali valutare se siano stati raggiunti gli obiettivi.
Questi ultimi possono essere conseguiti solo se sono stati ottenuti risultati significativi, misurabili con altri adeguati indicatori di risultato o di “output” (per es. percentuale di sieroconversione, percentuale di donne identificate positive dal Pap-Test che completano il ciclo specifico dei trattamenti previsti, percentuale di donne che sono in grado di risolvere un problema di allattamento o sono in grado di rivolgersi a chi le aiuta a risolvere efficacemente il problema, sul totale delle donne che hanno problemi nell’allattamento).
Lo svolgimento delle attività necessarie per ottenere i risultati attesi è a sua volta misurabile attraverso specifici indicatori di processo (per es. percentuale di persone vaccinate sul totale di quelle candidate alla vaccinazione, percentuale di donne che effettuano un Pap-Test sul totale di quelle invitate, percentuale di donne che accettano una visita domiciliare per ricevere counselling e sostegno all’allattamento materno, sul totale delle donne che partoriscono).
L’importanza di partire dagli obiettivi e dalla loro misurabilità risiede nella conseguente necessità di identificare la popolazione che verrà coinvolta nella strategia di prevenzione per poter avere i denominatori degli indicatori.
Cardine epidemiologico delle strategie di prevenzione e promozione della salute
La popolazione bersaglio e le sue articolazioni rispetto al rischio
Nel contesto della Sanità Pubblica, tale popolazione , detta bersaglio o target, viene identificata attraverso le indagini epidemiologiche come la popolazione in cui si instaurano le condizioni o da cui insorgono gli eventi negativi che si osservano senza l’intervento di promozione della salute. Obiettivo essenziale della investigazione epidemiologica è il riconoscimento dell’esistenza di differenziali di rischio per definite stratificazioni (per es. nelle condizioni socioeconomiche più svantaggiate aumenta la precocità delle infezioni con conseguente maggiore gravità, è più alta l’incidenza del tumore del collo dell’utero, ed è minore la partecipazione ai corsi di preparazione alla nascita).
La popolazione bersaglio, così epidemiologicamente identificata, consiste di tutte le persone che vivono a qualsiasi titolo nel territorio assegnato all’Azienda USL o a una sua articolazione (Distretto), titolari dei diritti di salute che è responsabilità dello Stato tutelare, ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione Italiana.
Lo scopo dell’attività di promozione della salute si raggiunge se nella popolazione si riduce il rischio associato all’instaurarsi delle condizioni o all’insorgenza degli eventi produttori di sofferenza, giudicati meritevoli di intervento.
E proprio perché si tratta di riduzione del rischio non è possibile valutare l’efficacia dell’intervento a livello individuale (per es. smettere di fumare non esclude ma riduce il rischio di insorgenza del tumore del polmone, che, se dovesse manifestarsi, non metterebbe in discussione la validità della raccomandazione di smettere di fumare, così come non viene messa in discussione dall’osservazione che non tutti quelli che fumano svilupperanno un tumore del polmone).
E’ così evidente che in sanità pubblica ha senso parlare di attività di prevenzione solo quando si fa riferimento a una strategia di intervento che si attua con una definita popolazione e quindi valutabile nella sua efficacia ed impatto, mentre perde senso quando si fa riferimento al livello individuale.
Date queste premesse, si può comprendere che se non vengono efficacemente coinvolte quelle sezioni di popolazione in cui la prevalenza delle condizioni o l’incidenza degli eventi presi in considerazione sono maggiori rispetto ad altre sezioni, gli indicatori (misurati nella popolazione di riferimento), si muoveranno nella direzione auspicata meno di quanto previsto.
Il problema centrale è che le sezioni di popolazione più a rischio (e che, quindi, presentano i peggiori valori degli indicatori), sono anche quelle più difficili da coinvolgere. Se, per esempio, il 10% della popolazione produce il 90% di un problema prevenibile ma viene scarsamente coinvolto, mentre lo è il restante 90%, l’indicatore relativo al problema non subirà modificazioni significative.
Cardine operativo delle strategie di prevenzione e promozione della salute
L’offerta attiva
Nelle attività di cura e riabilitazione, la persona che ha il problema in atto è mossa dall’urgenza per lo stato di sofferenza e si fa carico di raggiungere chi è in grado di interpretare correttamente il problema e proporre la soluzione. Un’ elementare verifica di efficacia dell’intervento è data dall’osservazione, effettuabile dall’operatore e dalla persona, della transizione dallo stato di sofferenza a quello di relativo benessere.
Sono ben noti i limiti di questa valutazione poiché la transizione può avvenire indipendentemente dalla terapia, e talvolta, nonostante essa. La medicina basata sulle evidenze scientifiche è il tentativo più valido per affrontare il problema.
Nell’attività di prevenzione non si può dare per scontato (anzi, non è affatto vero) che la persona a rischio si rivolga a chi può coinvolgerla nell’attività di promozione della salute, perché potrebbe non avere la consapevolezza di essere a rischio, non è pressato dall’urgenza (si ha a che fare con un problema potenziale, non in atto), potrebbe non avere elementi utili per identificare chi può aiutarla a ridurre il rischio, potrebbe essere in una condizione di tale deprivazione sociale (powerlessness) da non avere il controllo della propria esistenza o da avvertire altre priorità basilari più urgenti.
Naturalmente non è da escludere che ci siano persone che hanno tutta la consapevolezza e competenza necessarie per ridurre il rischio, ma preferiscono non aderire alle raccomandazioni (e vanno rispettate e non biasimate, pur tenendo conto delle esigenze degli altri).
A risolvere il problema non basta l’informazione standardizzata (e, meno che mai, quella terroristica e biasimante i comportamenti a rischio), normalmente veicolata con i metodi e gli strumenti della comunicazione di massa. La standardizzazione del messaggio pregiudica la comprensibilità in tutte le sezioni di popolazione, e inoltre la comunicazione non interattiva (il ricevente è passivo) raramente determina le condizioni che favoriscono la metabolizzazione del messaggio stesso.
Trattandosi di problemi potenziali, non viene avvertita l’urgenza (si può rimandare a domani, poi i problemi della vita quotidiana prendono il sopravvento per la loro attualità ed urgenza).
Per questo nell’ambito delle strategie di promozione della salute è Maometto che deve andare alla Montagna!
D’altronde l’aggettivo “bersaglio”, che si aggiunge alla popolazione di riferimento per la strategia, nonostante il portato di direttività e invasività che esprime (basti pensare all’effettuazione del Pap-Test, tanto per fare un esempio), sta ad indicare, invece, che è compito dell’arciere (e sua abilità e responsabilità professionale) centrare il bersaglio, e non compito del bersaglio, trasportato da inservienti, andare ad intercettare la traiettoria della freccia.
Quindi una strategia di prevenzione e promozione della salute deve prevedere un modello organizzativo che, tenendo conto delle caratteristiche della popolazione e delle risorse disponibili e di quelle potenzialmente attivabili (anche provenienti dalla popolazione stessa), preveda che ogni singola persona sia raggiunta da operatori motivati ed addestrati in grado di farsi accettare con modalità di comunicazione modulate sulle caratteristiche della persona e quindi capaci di tener conto degli aspetti culturali, relazionali, psicologici, etici, sociali e antropologici. L’espressione del rifiuto individuale deve essere considerato dall’operatore un formidabile stimolo a riflettere su potenziali errori di comunicazione su uno o più degli aspetti citati e impone l’obbligo, che la strategia operativa deve prevedere, di svolgere periodicamente una valutazione epidemiologica dei fattori di rischio associati al rifiuto e dell’ entità della persistenza del problema nelle persone non raggiunte. Di qui l’importanza strategica dell’indicatore costituito dal tasso di rispondenza.
E’ evidente l’esigenza che l’operatore contatti la persona con rispetto, gentilezza, sensibilità, empatia e compassione (che non sono opzioni etiche, ma competenze professionali essenziali).
Già si è accennato al fatto che le persone più difficili da raggiungere e coinvolgere sono anche quelle maggiormente a rischio e sono, nella generalità dei casi, in condizioni di deprivazione sociale tale da farle vedere come brutte, sporche e cattive, tanto da stimolare la voglia di biasimare le vittime.
Ma sono proprio le persone difficili da raggiungere che stimolano, per la sfida che pongono, il professionista della prevenzione a cimentarsi creativamente a trovare soluzioni innovative nelle strategie della comunicazione (incrementando così il patrimonio di competenze professionali).
Una volta che si è stati in grado di farsi accettare (con una conseguenza niente affatto trascurabile di accreditamento dei servizi) si deve svolgere l’azione di promozione della salute che, come per la comunicazione per farsi accettare, deve essere condotta in modo non direttivo, attento alla complessità, con rispetto, gentilezza, sensibilità, empatia e compassione.
L’azione deve essere in grado di coinvolgere la persona in un processo di riflessione sul proprio vissuto quotidiano, sulla memoria storica della comunità di appartenenza al fine di promuovere, alla luce delle nuove conoscenze, consapevolezza e competenza per scelte responsabili ed autonome. Si tratta, quindi, di un vero e proprio processo di empowerment, con la finalità di valorizzazione del patrimonio di salute.
Anche in questo caso vanno indagati epidemiologicamente i fattori associati alle scelte alternative a quelle raccomandate per verificare se queste non siano conseguenza di un inadeguato processo di empowerment, per poter, di nuovo, cimentarsi creativamente nella ricerca di modalità innovative.
Quando si parla di offerta attiva, di questo si intende.
L’uso degli strumenti e dei metodi della comunicazione di massa, la realizzazione di momenti di aggiornamento professionale per quei professionisti che non si è riusciti a incardinare direttamente nella strategia operativa (per es. pediatri di libera scelta, medici di base, ginecologi, collegi delle ostetriche, farmacisti, ecc.) l’attuazione di iniziative che coinvolgano la popolazione (per es. interessando le scuole, nello sviluppo di attività didattica sul tema considerato, i livelli istituzionali locali e l’associazionismo interessato), svolgono una funzione essenziale di sostegno per l’offerta attiva, senza la quale, però, tutto il resto produrrebbe effetti non significativi, soprattutto nelle sezioni più svantaggiate della popolazione.
Letture consigliate
1 Grandolfo M - Le strategie di prevenzione e le disuguaglianze sociali. In: Corchia C, Baronciani D, Ghetti V (a cura di) Atti del Convegno “Epidemiologia della disuguaglianza nell’infanzia” Roma 11-12 Aprile 1994
Roma: Istituto Italiano di Medicina Sociale; 1995. pp. 279-288
2 Grandolfo M. I consultori familiari: evoluzione storica e prospettive per la loro riqualificazione. In: Montemagno U (a cura di). Il ginecologo italiano.
Milano: Hippocrates; 1996 pp. 465-477
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