sabato 17 gennaio 2009

MODELLI DI SALUTE E MODELLI DI WELFARE.

La salute della donna e dell’età evolutiva come ambito paradigmatico.
I consultori familiari e il Progetto Obiettivo Materno Infantile come modello di sanità pubblica.

Michele Grandolfo
Reparto Salute della donna e dell'età evolutiva (direttore)
Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute
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Il welfare del 20° secolo è stato caratterizzato da una impostazione paternalista e direttiva;
le persone venivano considerate incompetenti e, quindi, da prendere sotto tutela.
Nella prima metà del secolo gli interventi di sanità pubblica erano limitati all’essenziale ma di grande impatto sulla salute delle popolazioni (basti pensare alla disponibilità dell’acqua potabile e al controllo delle acque reflue), determinando ciò un notevole livello di fiducia da parte delle persone e delle comunità verso i servizi relativi (l’ufficiale sanitario, presente in ogni seppur piccolo comune, era una delle figure pubbliche di riferimento).

Col crescere dello sviluppo socio-economico nella seconda metà del secolo venivano proponendosi nuovi bisogni e la loro espansione richiedeva un adeguamento della disponibilità dei servizi , oltre alla sempre maggiore consapevolezza che il dettato costituzionale (art.32) non potesse rimanere a rappresentare diritti astratti ma finalmente esigibili. I professionisti della salute videro espandere il loro campo d’azione con un potenziale rischio di autoreferenzialità e conflitto di interesse in quanto contemporaneamente a) interpreti del bisogno percepito di salute, che si andava prepotentemente proponendosi, da tradurre in domanda, b) erogatori diretti o indiretti della risposta e c) valutatori dell’efficacia dell’intervento.

L’autoreferenzialità veniva accentuata dalla teorica impossibilità di effettuare una valutazione di efficacia, secondo un approccio scientifico, a livello individuale, mancando la possibilità della prova controfattuale. Per inciso, solo il metodo epidemiologico rappresenta il surrogato scientificamente accettabile della prova controfattuale. Potrebbe sembrare una drammatica riduzione di opportunità il dover ricorrere a un surrogato per svolgere una funzione che è essenziale in ogni attività umana, quella del valutare se quanto si è fatto abbia effettivamente permesso di raggiungere, e in quale misura, gli obiettivi che hanno mosso all’azione.

In realtà, quello che in prima istanza sembra una limitazione si rivela un incredibile stimolo a riflettere sui meccanismi della conoscenza. Infatti, la limitazione ci porta a riflettere che la mancanza della prova controfattuale deriva dall’avere a che fare con processi vitali e, quindi, irreversibili ed è, pertanto, impossibile prevedere con assoluta certezza il risultato corrispondente a una azione: non si ha a che fare con sistemi macchinici ideali (anche quelli reali, per via dell’attrito, determinano margini di incertezza, seppure modesti) ma con sistemi complessi che possono essere gestiti e compresi solo statisticamente. Inoltre, dover avere a che fare con diverse persone, “in gruppi di campioni rappresentativi”, impone una riflessione sulle variabili da tenere sotto controllo e, quindi, da una parte si esce dalla dimensione individuale e, dall’altra, si deve tener conto dei determinanti sociali. Cioé il metodo epidemiologico sposta l’attenzione dall’individuo alla comunità e pone la questione della definizione operativa della comunità e, soprattutto dei determinanti delle sue articolazioni. Poiché tali articolazioni sono iscritte nel sociale, l’approccio epidemiologico presenterebbe gravi carenze scientifiche se scegliesse come paradigma epistemologico un modello biomedico di salute e non un modello sociale.

L’impostazione autoritaria del modello paternalistico-direttivo aggrava il rischio del conflitto di interesse quando l’espansione dei bisogni e le maggiori disponibilità di risorse rendono appetibile al mercato l’area della salute e, quindi, viene promossa la proliferazione dell’offerta di prestazioni, anche quando non c’è evidenza scientifica accumulata che ne sostenga l’efficacia o quando non c’è la condizione che ne giustifica l’impiego. È di tutta evidenza che la scelta di un metodo scientifico -l’epidemiologia - per la valutazione della qualità e dell’impatto di sanità pubblica non è solo una questione di conoscenza ma anche una faccenda politica. Infatti, le tasse e i contributi sanitari dei cittadini forniscono le risorse al sistema socio-sanitario e il risultato atteso non può essere che: efficacia nella pratica, appropriatezza e equità.

L’equità rende conto dell’obbligazione finale della sanità pubblica: ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali. Rappresenta anche la condizione perché gli indicatori di esito, calcolati, come non potrebbe essere altrimenti, a livello di popolazione, si modifichino significativamente. Infatti, nella generalità dei casi, le sezioni di popolazione affette da deprivazione sociale sono anche quelle, e non è una sorpresa se si assume un modello sociale di salute, che producono con più frequenza e/o con maggiore gravità eventi e condizioni di sofferenza.

È interessante rilevare come il modello di welfare direttivo paternalistico sosteneva anche l’idea che le prestazioni proposte fossero sempre da assumere come valide in quanto formalmente scelte secondo scienza (ma quale scienza?) e coscienza, per cui la valutazione poteva limitarsi a un aspetto di apparente efficienza: quante prestazioni nell’unità di tempo? Apparente efficienza perché è ovvio che se l’efficienza è definita come efficacia su risorsa, se l’efficacia è zero (intervento inefficace o inappropriato) qualunque quantità si disponga a denominatore, l’efficienza risulta sempre zero. Ciò implica clamorosamente che è interessante solo una valutazione di qualità, rappresentata da indicatori di salute validi e, pertanto, misurabili. Solo la qualità, valutata scientificamente, e non le prestazioni, è il corrispettivo adeguato alle tasse pagate dai cittadini.
Il punto è che la qualità può essere apprezzata in modo rigoroso solo quando si considera coinvolta tutta la popolazione perché qualunque forma di selezione può pregiudicare la valutazione in quanto fattore della qualità potrebbe essere quello stesso della selezione, piuttosto che l’intervento.
Inoltre, la professionalità non è rappresentata dall’esecuzione a regola d’arte di procedure standardizzate (le macchine a controllo numerico farebbero molto meglio tale attività), ma dalla capacità di riconoscere le deviazioni della realtà effettuale dalle previsioni secondo il modello interpretativo e più in generale dalla visione del mondo, cioè dalla capacità di riconoscere gli errori e saper “vedere” una nuova prospettiva per il cambiamento del modello operativo o per il cambiamento dei paradigmi epistemologici. Tutto ciò in un contesto in cui è operativo il confronto tra pari e in cui gli stimoli più ricchi provengono dalle sollecitazioni più estreme: sono proprio le condizioni di maggiore alterità a mettere alla prova la qualità dei modelli operativi e, più in generale la visione del mondo.


Nella seconda metà del secolo 20°, all’espansione delle risorse si associava la maturazione di un conflitto sociale in cui si rivendicava il diritto da parte dei produttori della ricchezza di goderne. La rivendicazione dell’autonomia del salario (variabile indipendente) corrispondeva alla rivendicazione da parte dei produttori allargati di ricchezza sociale della titolarità nella espressione dei bisogni, con il rifiuto della tutela e l’assunzione della condizione di competenza nell’autodeterminazione: i gruppi omogenei operai andavano rivendicando il diritto di autorappresentare il proprio stato di salute (Maccacaro), persino i malati di mente riuscirono, grazie a Basaglia, a conquistare il diritto alla parola. Ma il fenomeno più potente fu il movimento delle donne che con la proposizione del punto di vista di genere andavano scardinando le radici del patriarcato e le radici sociali delle relazioni di potere, il tema della salute e della sua promozione diveniva paradigmatico in quanto in grado, più che in ogni altra situazione, di far emergere le caratteristiche del modello di welfare e i paradigmi epistemologici del modello di salute.
I conflitti sociali imponevano il modello sociale di salute e proponevano un modello di welfare basato sulla partecipazione e sulla capacitazione (empowerment) delle persone e delle comunità, riconoscendo loro le competenze potenziali da valorizzare: si era in presenza di una rivoluzione copernicana.

In quella temperie nasce la spinta per la creazione di nuovi servizi: con competenze multidisciplinari per una visione olistica della salute e in grado di agire in modo integrato per la promozione della salute.
A dimostrazione del ruolo centrale delle donne e della loro salute come cartina di tornasole delle relazioni sociali, dal movimento delle donne nasce l’invenzione geniale dei consultori familiari, che vennero realizzati con esperienze esemplari di autogestione. In queste esperienze si rimetteva in discussione nella pratica il modello direttivo e si sperimentavano relazioni basate sulla partecipazione (relazioni orizzontali): i professionisti (spesso le professioniste) in equipe rinunciavano all’approccio autoritario di chi sa verso chi non sa, imparavano a riconoscere con la persona e la comunità (ecco un primo fondamentale riconoscimento di competenza) i determinanti sociali (cause dietro le cause biologiche) della salute. Imparavano a sperimentare momenti di promozione della salute come sviluppo delle competenze per aumentare il controllo del proprio stato di salute.

L’assunzione centrale dell’essere le persone competenti e inserite nelle specifiche relazioni sociali rende la promozione della salute attività prioritaria: è l’anticipazione della Carta di Ottawa del 1986, in cui la promozione della salute viene vista come processo di empowerment.
La potenza della spinta del conflitto sociale si riflette nelle innovazioni legislative: la legge 405 del 1975, istitutiva dei consultori familiari pubblici; nel 1978, la legge 180 sulla salute mentale, la legge 194 sulla legalizzazione dell’aborto e la legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.

Nel clima di stato nascente i/le professionisti/e che si impegnano nei consultori familiari erano stati partecipi del movimento e portavano l’entusiasmo del processo del cambiamento.
L’entusiasmo faceva presumere che tutte le persone con bisogno si sarebbero rivolte al servizio consultoriale: assunzione clamorosamente errata se si pensa che chi è nella condizione di powerlessness (disempowerment) ha proprio carente o ridotta la competenza primaria di cercare salute ( “health seeking behaviour”).

Si determinava un processo di autoselezione della popolazione che si serviva dei consultori e chi vi si rivolgeva spesso proponeva, come è normale che fosse, problemi di salute in atto, sollecitando i/le professionisti/e nell’attività di cura (a cui peraltro erano predisposti dal tradizionale processo formativo). Perdeva centralità l’attività di promozione della salute con tutte le straordinarie implicazioni connesse alla valutazione della sua qualità. Non mancavano, tuttavia, momenti importanti di offerta attiva di azioni di promozione della salute nella comunità, a partire dalle scuole, ma raramente si effettuavano valutazioni scientifiche di efficacia e, tanto meno, di impatto.

L’istituzione del servizio sanitario nazionale rappresentò il momento in cui si sarebbe potuta determinare la massima valorizzazione di questi originali servizi, infatti la legge 833/78 raccoglieva le istanze di autodeterminazione e assegnava un ruolo strategico alla promozione della salute, nella prospettiva di un modello sociale di salute e di un welfare basato sulla valorizzazione delle competenze (empowerment); si riconosceva l’importanza della partecipazione della società civile (i sindaci venivano riconosciuti come autorità sanitaria e attori centrali, come presidenti, nelle conferenze sanitarie cittadine o locali, organi del governo delle Unità Sanitarie Locali. Alle USL veniva assegnata una autonomia gestionale nel contesto della programmazione regionale che, a sua volta, doveva far riferimento alla programmazione nazionale: si riconosceva la necessità di ridurre la direttività delle autorità centrali).

Un primo elemento di freno rispetto alle istanze che avevano dato luogo alla riforma si riscontra nel non aver voluto formalmente riconoscere le implicazioni sociali nei temi della salute, tanto è vero che alcune Regioni sentirono la necessita di usare la denominazione: Unità Socio Sanitarie Locali.
Ma fu la realizzazione concreta della legge 833/78 a far emergere tutti gli ostacoli a una piena assunzione delle istanze che la società civile aveva posto all’ordine del giorno. Il potere degli ordini professionali operò con determinazione alla riaffermazione della centralità autoreferenziale del professionista, imponendo la persistenza di un sistema operatore-orientato, e il segnale più potente fu la non istituzione a livello regionale degli osservatori epidemiologici regionali, da mettere in rete con quello nazionale, riconosciuto dalla legge presso l’Istituto Superiore di Sanità.

Veniva pregiudicata la possibilità di un sistema scientifico di valutazione in grado di apprezzare lo stato di salute della popolazione in tutte le sue articolazioni sociali, al fine di apprezzare l’impatto dei programmi (nazionali e regionali) che avrebbero dovuto essere approvati per raggiungere l’obiettivo ultimo di un sistema sanitario pubblico: ridurre gli effetti sulla salute delle diseguaglianze sociali (articolo 32 della Costituzione).
Non vennero mai approvati piani nazionali; quelli regionali comunque formulati non rispondevano ai requisiti per un reale governo scientifico dei sistemi: mancavano obiettivi misurabili con i corrispondenti indicatori e le indicazioni concrete per la realizzazione delle strategie operative, alla luce delle risorse disponibili. Non veniva così attivato il circuito virtuoso: programmazione, valutazione e formazione. Si posero così le basi per la degenerazione del sistema sposando il modello della “notte in cui tutti i gatti sono neri”.

Non si trattava di errori culturali, che pure ci furono, ma di scelte politiche atte a ripristinare i poteri tradizionali, messi profondamente in discussione negli anni settanta. Si scelse l’apparente assurdità di non governare il sistema.
È, infatti, nel senso comune che un armatore (il parlamento) stabilisca il porto (gli obiettivi di salute) a cui deve approdare la nave, che il comandante tracci la rotta ottimale (progettazione operativa con il corredo degli indicatori di processo e di risultato) e, assunte le risorse necessarie per raggiungere l’obiettivo, governi la nave nei frangenti imprevedibili che si possono incontrare nel percorso (la rotta non è un binario) mediante l’uso della bussola (gli indicatori) e il timone (l’aggiornamento professionale).

È evidente che se non vengono esplicitati obiettivi misurabili con i corrispondenti indicatori, si intende perseguire obiettivi nascosti con un uso improprio delle risorse per finalità autoreferenziali, con uno scambio perverso tra tecnici e politici (i primi con i vantaggi di carriera e i secondi con le clientele assicurate dai tecnici grandi elettori). La presunta autorevolezza di cui si pretendeva il riconoscimento ossequioso perché fondata sulla supposta medicina scientifica, veniva clamorosamente contraddetta dall’esplosione degli interventi inefficaci ed inappropriati. Si rifiutava sistematicamente la valutazione, soprattutto quella tra pari, alla luce delle prove scientifiche di efficacia riportate nella letteratura internazionale che, con tutti i limiti pure presenti (quali modelli scientifici e quali paradigmi epistemologici?), costituiva il patrimonio della medicina basata sulle prove (Evidence based Medicine).

Le mancate assunzioni di responsabilità hanno riguardato in particolare i Sindaci, nel loro ruolo di autorità sanitaria, la qual cosa è stata particolarmente grave, in quanto il trasferimento di tale ruolo dall’Ufficiale sanitario, dipendente dal Medico provinciale e, per il suo tramite, dal Ministero della sanità, al Sindaco, rappresentante eletto della comunità, era una chiara manifestazione del cambiamento di paradigma: dal modello biomedico di salute e dal welfare paternalistico-direttivo al modello sociale di salute e al welfare della partecipazione e dell’empowerment.
È certamente vero che la qualità dell’ambiente di vita nella comunità comunale influisce sulla qualità della salute e di tale qualità l’amministrazione comunale e chi la governa ne ha importante responsabilità, ma il ruolo di Autorità sanitaria e la presidenza della conferenza sanitaria stavano ad indicare che fosse compito del Sindaco nella sede istituzionale di consulenza del governo della ASL rappresentare l’interesse della comunità riguardo la verifica: a) che la organizzazione dei servizi e la programmazione operativa delle attività fossero congruenti con i diritti di salute stabiliti a livello nazionale e regionale (ecco l’importanza dei piani sanitari nazionali e regionali, scientificamente approntati), a monte; b) che le attività avessero prodotto i risultati attesi per il raggiungimento degli obiettivi di salute, senza disuguaglianze e ottimizzando le risorse, a valle. Al Sindaco, infine, spetta il diritto-dovere di esprimere formalmente il parere sulla qualità dei direttori generali nominati dalla Regione e si comprende come sia essenziale il suo ruolo nel sistema di governo.

Tale fondamentale ruolo è stato sostanzialmente disatteso ovunque, anche per l’assenza nella comunità civile di una pressione adeguata. Le uniche occasioni in cui i Sindaci si sono mobilitati hanno riguardato la difesa, quasi sempre infondata, di strutture ospedaliere totalmente inefficienti. Anche se va detto che l’eliminazione di un ospedale inefficiente doveva avere come contropartita un complesso di servizi sociosanitari di secondo livello (compreso il pronto soccorso ambulatoriale) per le corrispondenti attività di cura. Tale secondo livello andava raccordato con i servizi di primo livello, dedicati alle cure primarie e all’attività di promozione della salute e di prevenzione. Dovevano, altresì, essere predisposti efficienti sistemi di collegamento e integrazione in rete con i servizi centralizzati di terzo livello, assicurando la continuità della presa in carico.

Certo, gestire reparti con posti letto è diverso, per una errata organizzazione delle progressioni di carriere, dal gestire sezioni di un poliambulatorio e si capisce come sia stato facile per i tecnici sobillare la comunità e fare pressione sui sindaci, quando la valutazione della qualità è assente e comunque non nella consapevolezza della comunità. Purtroppo si acquisisce la consapevolezza che un servizio inadeguato ad affrontare emergenze di terapia intensiva, come deve essere il terzo livello, crea seri problemi, quando l’effettivo ricorso a tale servizio fa perdere tempo prezioso nelle condizioni di urgenza.

Sono evidenti in questo meccanismo alcuni elementi di scambio tra clientela e difesa corporativa di interessi autoreferenziali. La comunità deve pretendere con una adeguata partecipazione e mobilitazione che il Sindaco svolga il suo ruolo non nella semplice difesa di servizi, ma nella verifica della qualità, nella consapevolezza che prestazioni inefficaci e/o inappropriate sono solo spreco di risorse preziose e potenziale danno. Solo se la qualità è adeguata e, quindi, i diritti di salute sono garantiti si ha ritorno, anche in termini di salario reale, delle tasse pagate dai/lle cittadini/e e l’equità rappresenta un valore aggiunto per la qualità. Infatti, le ricerche scientifiche dimostrano che laddove c’è maggiore equità, la qualità della salute è migliore per tutti (i ceti sociali più avvantaggiati in società con maggiori disuguaglianze hanno indicatori di salute peggiori dei ceti sociali più avvantaggiati in società con minori disuguaglianze: ogni singola persona sta meglio se tutte le altre persone stanno bene).

Un segnale di tale degenerazione si poteva cogliere osservando le caratteristiche e il modo di lavorare dei settori sanità dei partiti politici: si partiva spesso dall’esigenza di difese occupazionali, per quanto, ma non sempre, legittime, e le proposte erano spesso operatore orientate, sempre nell’assunzione del modello biomedico per cui si associa alla prestazione la automatica garanzia di qualità. L’esplosione degli interventi diagnostico-terapeutici inappropriati e/o inefficaci, fino a far stimare nel 30% il conseguente spreco di risorse, sta a testimoniare l’entità del problema, aggravato dalle possibili patologie iatrogene associate. Si sposava in definitiva l’idea che più prestazioni fosse equivalente a più salute, come conseguenza di un sistema operatore-orientato.

La speculazione mercantile sulla salute con l’espansione delle pratiche inappropriate e/ inefficaci mette seriamente in discussione la qualità professionale e, in definitiva, la dignità del professionista, che viene in tal modo ad assumere un ruolo di erogatore eterodiretto di prestazioni.

La maggiore sensibilità delle autorità politiche verso le esigenze dei professionisti della sanità, non necessariamente condivise dalla loro maggioranza, ma certamente rappresentate dai vertici delle organizzazioni professionali, sensibilità dovuta alla possibilità del clientelismo e dall’essere i professionisti grandi elettori, sta a indicare un aspetto della crisi della rappresentanza politica. Questa crisi può essere superata solo dalla presa di coscienza da parte della comunità che non può essere sufficiente la delega e la verifica alla successiva tornata elettorale, ma è necessario sviluppare e far funzionare modelli di autodeterminazione e di elaborazione all’interno della comunità perché questa possa esprimere costantemente una pressione verso i propri rappresentati: le organizzazioni spontanee della società civile, peraltro presenti per altri aspetti della vita comunitaria, e un innovativo ruolo delle comunità scolastiche, stimolate da programmi di promozione della salute, possono trovare interessanti prospettive.

E non bastano le miriadi di associazioni di malati di specifiche patologie, che pure possono svolgere un ruolo prezioso di sostegno delle famiglie, per il costante rischio di autoreferenzialità e, talvolta, di inquinamento conseguente al sostegno di produttori di quanto attiene all’intervento diagnostico terapeutico, che hanno interesse ad ampliare il mercato.

Segnali chiari della degenerazione erano, da una parte, il sistematico disinteresse a mettere in rete le articolazioni (orizzontali e verticali) del sistema, dall’altra, la feroce emarginazione dei consultori familiari, anche attraverso la scarsità delle risorse assegnate. Questi elementi di degenerazione hanno assunto aspetti clamorosi nelle regioni del Sud, dove in particolare i consultori, peraltro in numero più limitato e con organici poco stabili e carenti, hanno subito quasi ovunque le forme più bieche di emarginazione.

Che l’ambito della salute della donna e dell’età evolutiva sia paradigmatico appare evidente dal modo in cui il tradimento della legge 833/78 si è espresso con la riproposizione del concetto di soggetti deboli, in clamorosa contraddizione con l’evidenza della potenza creativa delle donne, ineguagliata e ineguagliabile, e dell’essere le donne stesse pilastri delle famiglie e quindi della società; e con l’evidenza che l’età evolutiva costruisce il futuro.

Peraltro, non è un caso che le forme più clamorose di interventi inefficaci o inappropriati riguardino proprio questo ambito di salute. È interessante notare che, in contrasto con l’obbligazione che un servizio sanitario pubblico deve avere, interventi inefficaci e inappropriati risultano più probabilmente a carico delle donne meno abbienti (vedi per esempio le isterectomie), mentre le stesse sono meno facilmente coinvolte nelle attività efficaci (vedi per esempio i corsi di accompagnamento alla nascita) di cui avrebbero maggiormente bisogno, l’infamia diviene insopportabile quando a questo risultato vergognoso si associa il biasimo delle vittime.

L’emarginazione dei consultori e l’assenza di una seria programmazione e valutazione dei sistemi (cioè l’assenza di capacità di governo per obiettivi di salute esplicitati e assunti nelle norme vincolanti) ha favorito la degenerazione di questi servizi verso una riproposizione della centralità dell’attività di cura piuttosto che della prevenzione e promozione della salute, privilegiando l’erogazione di prestazioni a chi si presentava spontaneamente al servizio, con i soliti problemi di appropriatezza ed efficacia. Tale impostazione favoriva lo smembramento prima funzionale, poi strutturale dell’equipe accentuando modelli di approccio frammentato e settorializzato, esattamente il contrario delle ragioni costitutive. Questa degenerazione veniva favorita anche dai modelli di rilevazione delle attività (per presunti scopi di valutazione) che veniva realizzata secondo quanto tradizionalmente disposto per la rilevazioni dell’attività ambulatoriale. Ma l’uso di una chiave di lettura ambulatoriale per la rilevazione delle prestazioni non poteva non distorcere la realtà consultoriale riflettendo dallo specchio deformante un modello operativo ambulatoriale e prevalentemente sanitario.

Quindi il sistema di rilevazione accentuava oltre ogni misura gli aspetti degenerativi del servizio consultoriale: se si cerca un ambulatorio si trova un ambulatorio. Tale analisi critica dell’attività consultoriale non deve offuscare la miriade di iniziative comunque realizzate in ogni area geografica secondo i principi ispiratori della costituzione dei consultori familiari, grazie al coraggio, la determinazione, l’entusiasmo e la creatività geniale di molti operatori (senza differenze tra professionalità) che nonostante le enormi difficoltà hanno sperimentato momenti, talvolta eccezionali, di promozione della salute.

Va inoltre detto che le indagini dell’ISS hanno costantemente dimostrato comunque una migliore qualità dell’attività consultoriale rispetto ad altri servizi, sia pubblici che privati (vedi per esempio i corsi di accompagnamento alla nascita), e se proprio si vuole essere severi si può dire che gli operatori consultoriali lavorano meno peggio di chi lavora in altri servizi. Come a dire che la memoria storica delle ragioni dell’istituzione dei consultori familiari persisteva comunque a rendere ragione del profondo impatto delle esigenze di innovazione poste in particolare dal movimento delle donne.

Si è detto del quadro deformato prodotto da un inadeguato sistema di rilevazione delle attività: certo è che ci vuole molta rozzezza per affermare che una attività di consulenza sulla procreazione responsabile sia una attività sanitaria e come si fa a rappresentare in termini di prestazioni tradizionali un corso di accompagnamento alla nascita o un corso di educazione sessuale in una scuola? Si comprende così come la rilevazione delle prestazioni in realtà rifiuta l’idea dell’equipe multidisciplinare e la “cifra” della prestazione è data dalla formazione curriculare dell’operatore. La dimostrata migliore qualità dei consultori familiari, sia come percepito dalle donne sia per i migliori risultati ed esiti, è certamente la risultante della permeabilità che ciascun operatore ha comunque avuto verso i modelli culturali e professionali degli altri colleghi con cui condivideva l’attività di frontiera con la popolazione.

L’orientamento verso la promozione della salute, pur con tutti i limiti comunque presenti, ha implicato una attenzione ai determinanti sociali quando si eseguiva una attività di cura, così come una qualunque attività di promozione della salute per valorizzare le competenze deve comunque cimentarsi nella risoluzione delle barriere della comunicazione, che sono iscritte nella dimensione psico-sociale, per accreditarsi. E come classificare la presa in carico di un problema di salute (psico-sociale, sanitario?) che viene proposto all’attenzione perché nell’attività di promozione della salute la prima condizione da realizzare è il farsi accettare e quindi porre le condizioni perché una eventuale richiesta di aiuto si esprima?.

Ma se l’attività consultoriale deve misurarsi in primo luogo nella promozione della salute, la modalità operativa di attendere che le persone si rivolgano al servizio da una parte produce una formidabile selezione di chi ha intanto una già presente capacità di cercare salute (“health seeking behaviour”) e saranno le persone affette da deprivazione sociale a non presentarsi, dall’altra il movimento spontaneo verso un servizio si attiva quando è presente un problema in atto, più facilmente di natura apparentemente sanitaria, e ciò determina una sollecitazione a privilegiare l’attività di cura e, in assenza di reti di integrazione con i servizi di secondo livello o in assenza di questi, a richiedere anche la competenza ambulatoriale con le connesse risorse strutturali e infrastrutturali. Una ulteriore conseguenza negativa è la disputa tra gli operatori sulla competenza chiamata in causa (sono da privilegiare le cause biologiche o quelle psico-sociali dietro le cause biologiche?) con conseguente attrito e desiderio di separazione (prevalentemente medici contro psicologi).

Ma cosa si intende per attività di promozione della salute?
Se si sceglie un modello sociale di salute e il sistema di welfare rimanda al processo di empowerment, è necessario trarre tutte le conseguenze dalla formulazione espressa nella Carta di Ottawa: la promozione della salute è quel processo che determina l’aumento della capacità di controllo sul proprio stato di salute da parte delle persone e delle comunità. Il punto è che con tale definizione non si hanno elementi evidenti per la valutazione, che, come per ogni attività professionale, è essenziale sia chiaramente definita. Come si valuta l’attività di promozione della salute?

Si è visto che anche nell’attività di cura si hanno problemi molto seri nel valutare a livello individuale l’efficacia, nonostante l’auspicata evenienza di un passaggio dalla sofferenza a una condizione di migliorata salute. Il problema deriva dal fatto che la transizione può accadere indipendentemente o nonostante le cure e, mancando la prova controfattuale, non si ha altra alternativa alla valutazione con la metodologia epidemiologica che pone il professionista a confronto con i suoi pari, alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili a livello internazionale (EBM).

Nell’attività di promozione della salute la conseguenza di un aumento della capacità di controllo sul proprio stato di salute determina, da una parte, una maggiore capacità di cercare salute e nella storia della persona si ridurranno i bisogni di salute (verso i quali il sistema è attrezzato) insoddisfatti e le mancate opportunità (“unmet needs of health” , “missed opportunities”); dall’altra, una attitudine a aiutare i propri pari nella promozione della salute (“peer education”). Si può ben vedere come tali modificazioni, importantissime, siano difficilmente misurabili in tempi utili perché la valutazione attivi il processo dell’aggiornamento professionale.

L’alternativa valida viene offerta dalla constatazione che se aumenta consapevolezza e competenza, la persona sarà più facilmente in grado di ridurre l’esposizione al rischio o l’effetto dell’esposizione al fattore di rischio e quindi è da attendersi che un efficace programma di promozione della salute determini una significativa modificazione di incidenza o di prevalenza degli eventi o delle condizioni, rispetto al livello osservato in assenza del programma stesso. Cioè a dire che la promozione della salute, con poche eccezioni (vedi la promozione dell’allattamento al seno, che, se efficace, aumenta la prevalenza dell’allattamento al seno a distanze stabilite dalla nascita), produce non eventi e quindi riduzione di incidenza.

Il punto critico è che gli indicatori di esito sono definiti a livello di popolazione e un servizio sanitario pubblico non può non porsi obiettivi che riguardano l’intera comunità. Peraltro va detto che qualunque selezione all’interno della comunità generale di un sottoinsieme della popolazione può pregiudicare la validità della valutazione perché non si può escludere, nonostante l’uso di metodologie sofisticate, che l’effetto di modificazione non sia dovuto tanto all’intervento quanto al fattore di selezione. D’altronde alla sanità pubblica interessa l’impatto dell’intervento e le persone affette da deprivazione sociale sono contemporaneamente più esposte al rischio (quindi producono più casi per unità di popolazione) e più difficili da “raggiungere”: non raggiungerle implica una riduzione, talvolta importante, della modificazione dell’indicatore di esito.

Le conseguenze in termini di programmazione, di valutazione e di aggiornamento professionale sono evidenti. Una attività di promozione della salute perde senso a livello individuale perché invalutabile, nemmeno nella forma elementare dell’osservazione della transizione che si può osservare nell’attività di cura; richiede invece l’organizzazione di una strategia operativa che, fissati gli obiettivi da raggiungere e i corrispondenti indicatori, con il corredo del sistema di valutazione, identifichi la popolazione da coinvolgere (che si chiamerà bersaglio per intendere che è responsabilità dell’arciere centrarlo e non del bersaglio di intercettare la traiettoria della freccia) riconoscendone le sue articolazioni rispetto al rischio, usualmente descritte dai determinanti sociali; identifichi modalità efficaci per farsi accettare dalle persone e per coinvolgerle nell’attività di promozione della salute (offerta attiva). La strategia operativa deve prevedere indagini per la ricerca dei fattori che hanno impedito il coinvolgimento, oltre a indagini per stimare di quanto si è ridotta la modificazione degli indicatori di esito in seguito al non coinvolgimento di chi non si è riusciti a raggiungere.

Se il cardine epidemiologico di una strategia di promozione della salute è la caratterizzazione della popolazione bersaglio e delle sue articolazioni rispetto al rischio, il cardine operativo è l’offerta attiva. Offerta: perché ci si rivolge alla persona con gentilezza, rispetto, empatia e compassione (compassione intesa nel senso etimologico del termine, che la pone a fondamento della democrazia). Attiva: perché è compito degli operatori superare le barriere della comunicazione e accreditarsi, essendo le barriere iscritte nella dimensione fisica, psicologica, culturale, sociale, etica ed antropologica.

Nella promozione della salute non si possono ottenere risultati significativi se non si assume un modello di welfare basato sulla partecipazione e sull’empowerment, e, corrispondentemente, se non si assume un modello sociale di salute.

Nel momento in cui i professionisti si accreditano creano le condizioni perché si espliciti una richiesta di aiuto per problematiche che rimarrebbero altrimenti silenti, eventualmente fino all’esplosione violenta. Questo è l’unico modo per intercettare e prendere in carico le condizioni di disagio presenti nella popolazione, evitando il rischio di stigmatizzazione connesso con le procedure tradizionali di segnalazione. Un aiuto per la formulazione della richiesta di aiuto può venire dalle altre persone coinvolte nella promozione della salute.

Nella promozione della salute è necessario avere una visione di integrazione per valorizzare tutte le sinergie e per tener conto della visione olistica della salute. Questo implica che si possono distinguere programmi strategici: per la possibilità di intervento, per le caratteristiche della popolazione da coinvolgere o per l’esemplarità pedagogica (in termini di valore aggiunto che si acquisisce per le competenze professionali e/o per le competenze che si sviluppano nella popolazione coinvolta). I programmi strategici possono supportare programmi satellite. Il programma di prevenzione del tumore del collo dell’utero è strategico per la popolazione coinvolta (donne di età compresa tra 25 e 64 anni, la maggior parte delle quali con responsabilità di cura delle loro famiglie, pilastri della società) e programmi di prevenzione del tumore del seno (per la parte essenziale del coinvolgimento e del riferimento al centro di diagnostica specializzato) o di counselling per la menopausa possono essere supportati dal programma strategico, con il quale, se condotto in modo efficace, si determina l’accreditamento utile per facilitare il coinvolgimento nelle attività dei programmi satellite.
Si evitano le frammentazioni e le settorializzazioni, come invece accade con quelle soluzioni equivoche come la creazione di “sportelli” utili spesso solo per il riconoscimento di ruolo dell’operatore, con scarsa capacità di intercettare le vere condizioni di disagio.

La mancanza di consultori familiari, le carenze di organico, il loro smembramento in unità operative settoriali e frammentate hanno ridotto le potenzialità di questi originali servizi di primo livello nell’attività di promozione della salute, a partire dalla salute riproduttiva. Introdotti in Italia almeno venticinque anni prima della presa di coscienza, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’importanza di tali servizi, dovrebbero rappresentare un vanto della sanità pubblica italiana. La maggiore riduzione del ricorso all’aborto osservata in Italia, rispetto ad altri importanti paesi europei, è ragionevole associarla alla presenza dei consultori familiari.

Commissioni nazionali, istituite dalla fine degli anni ottanta presso il ministero della sanità, hanno costantemente concluso riconoscendo la importanza strategica dei consultori familiari e hanno raccomandato il loro potenziamento e riqualificazione, raccogliendo le proposte dell’Istituto Superiore di Sanità. Con conseguenze normative di tutto rilievo: dopo la prima commissione (1987-89) Donat Cattin stanziò 25 miliardi per il potenziamento della rete consultoriale al Sud; dopo la seconda commissione (1995-96) Guzzanti fece varare la legge 34/1996, che ha stanziato 200 miliardi per il potenziamento dei consultori familiari in tutto il territorio nazionale, con l’obiettivo, stabilito dalla legge, di un consultorio ogni 20000 abitanti; la terza commissione (1998-2000) ha elaborato il Progetto Obiettivo Materno Infantile, varato a giugno 2000 (Bindi) e attualmente ripreso integralmente nei Livelli Essenziali di Assistenza, varati a gennaio 2002 (Sirchia).
Il Progetto Obiettivo Materno Infantile assegna un ruolo centrale ai consultori familiari e delinea con molto dettaglio non solo gli aspetti organizzativi, ma anche gli obiettivi da raggiungere, i corrispondenti indicatori di esito, con il seguito degli indicatori di risultato e di processo e le azioni da svolgere mediante offerta attiva.

Oggi si assiste a un tentativo di nuovo cambio di paradigma: dalla promozione della salute alla medicina predittiva: si torna al modello biomedico con la radicale sottovalutazione dei determinanti sociali e con l’ipervalutazione (contro ogni evidenza scientifica e nella prospettiva di un riduzionismo estremo, contraddetto dalle riflessioni epistemologiche più aggiornate) dei fattori genetici. In tale prospettiva si riassegna un ruolo potente ai tecnici, peraltro fortemente eterodiretti in quanto erogatori di prestazioni proposte dalle multinazionali che controllano il mercato della salute, con la mistificazione delle magnifiche sorti e progressive delle biotecnologie: Ai tecnici viene così assegnato un ruolo di controllori biopolitici della società. Di nuovo viene proposto un modello direttivo paternalistico che non ha nemmeno bisogno di partire dai bisogni percepiti di salute, essendo le investigazioni genetiche (obbligatorie?) a definire quali interventi subire.

L’esplosione dei costi farà saltare ogni compatibilità economica e costringerà allo smantellamento sostanziale del servizio sanitario pubblico, con conseguente approfondimento degli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali, che le riforme (absit iniuria verbis) economiche accentueranno sempre di più.

Oggi osserviamo una anticipazione della medicalizzazione della società nella medicalizzazione della nascita, espressione di una volontà di ricondurre all’ordine le donne e la loro autodeterminazione (vinte le donne toccherà a tutti). La medicalizzazione non è altro che l’espressione della volontà di indurre senso di incompetenza e di inadeguatezza: le donne non devono sentirsi competenti a condurre la gravidanza, a far nascere una nuova vita e a prendersi cura di essa.

Il Progetto Obiettivo Materno Infantile è ancora norma vigente e si propone come alternativa alla degenerazione incombente. I termini delle scelte politiche sono chiari.

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